Bloccato. Disperato. Ancora ad una realtà che non è più la mia. mi perdo, quotidianamente, nei miei pensieri cercando un appiglio. Un qualcosa di più sicuro, che posso fungere da ancora di salvezza. Sensoriale.
Eppure, per quanto mi sforzi, la tracotante e impervia passione che mi spinge a proseguire lungo questo sentiero sembra non finire mai. Sembra perdersi nel vuoto spinto dell’altezzosità vacante dello stato attuale delle cose.
Perdura come d’un tratto, per colpa di qualcosa di più alto. Di più acerbo, forse. Ma mai vinto del tutto. Incurante. Sempiterna. Forse addirittura esacerbante. Questa nuova realtà aguzza che spinge con i suoi aculei e smuove le stelle ad essere meno brillanti di prima.
Forse questo impeto sonoro che chiamiamo vita non è altro che un impulso deterrente alla nostra reale esistenza. Qualcosa che, in fondo, sappiamo essere ciò che non è. Qualcosa di maturo e altrettanto vago che ci spinge ad essere altri da noi stessi.
Sembriamo cadaveri al suolo. Incapaci di reagire alle più spinte motivazioni della nostra generazione. Risoluti di fronte al nulla. Persi di fronte a tanta oltraggiosa verità.
Non siamo matti. Siamo persi nell’oblio quotidiano, sommersi da una mole inconcepibile di verità alle quali non badiamo. Alle quali non diamo ascolto. Tutto è ovattato, di fronte a questa incauta situazione che approcciamo con solenne dignità ma con scarsità di mezzi.
Qualunque cosa ci appaia di fronte sembra uscita da un mero contenitore senza bordi. Qualcosa di duraturo nell’animo ma flebile di fronte alla vastità della natura in sé. Quella che chiamiamo casa. Quella che viviamo sulla nostra pelle. Ogni secondo della nostra vita.
Eppure, di fronte all’immensità della depressione quotidiana, arranchiamo, cerchiamo un riparo da tutto questo. Cerchiamo una grotta, un anfratto dove ritrovarci tutti assieme, raccontando storie attorno al fuoco. Quello che troviamo, però, spesso è nocivo per la nostra libertà di espressione.
Le catene e le pareti si fanno sempre più stringenti. Sempre più vincolati. Siamo i peggiori aguzzini di noi stessi. Sbraitiamo. Cerchiamo con forza di liberarci dal gioco della socialità estrema. Quella che rasenta, come opposto, l’asocialità per definizione.
La codardia della situazione è qualcosa di esacerbante che provoca dolori nell’immediato e ferite nel lungo termine, prima che diventi un passato troppo lontano da essere ricordato.
La memoria non ci aiuta. Ci spinge, piuttosto, a fabbricare qualche isolato momento di tenerezza vissuto all’ombra di una vita altra, che non ci appartiene più di quanto non appartenga a nessun altro.
Non siamo noi, nel limbo della memoria. Non siamo noi nella stanza dell’anima. C’è qualcun altro nella stanza dei bottoni. Qualcuno di fastidioso, la cui sola presenza è fonte di infinita tristezza e ci accompagna per gran parte del nostro viaggio.
L’aberrante solitudine in cui versiamo sembra non sparire mai. Sembra essere diversa da quelle che solitamente approcciamo, durante il giorno. La notte dell’esperienza, invece, si profonde di infinita saggezza, impossibile da far propria.
Quello stimolo innato di veemente codardia si palesa allora lungo il meridiano della nostra esistenza, al crepuscolo secolare del nostro intelletto, capace di renderci vivi ancora una volta. Ancora per un soffio di fiato.
Poi è subito sera.